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La paura della banalità


Il mio primo blog post parte con il motivo per cui non ho ancora pubblicato un blog post sul sito: la paura della banalità.


Sin da piccola sono stata educata alla musica d’autore e all’ironia. Da bambina ascoltavo Annarella insieme alle canzoni dello Zecchino d’oro e ballavo Don Raffaè più del Gioca Jouer.

Da adolescente, insieme ai classici Riccardo Scamarcio e Adam Levine, mi piaceva il giovane e aitante Daniel Pennac.

Ho sempre preso in giro le canzoni con i testi un po’ banali o troppo romantici e le frasi dei baci Perugina.

Ricordo che con mio fratello analizzavamo le canzoni di Anna Tatangelo (vincere facile) ma anche quelle dei Lunapop. Se Cesare Cremonini cantava soddisfatto “e ora fingi che non c’è”, appena mio fratello partiva con gli accordi, insieme intonavamo “e ora fingi che non ci sia!”. Ora però Cesare Cremonini fa i tour negli stadi mentre io sto scrivendo questo post in un bilocale in affitto.


(nella foto in alto, indosso con orgoglio la mia maglietta di Barbie e il walkman, probabilmente ascoltando Lo zecchino d'oro per compensare l'ascolto di Ecco i miei gioielli degli allegri CCCP, cassetta preferita di mia sorella.)


Comunque, ovviamente, ho scritto anche io sui diari delle amiche “Sei carina sei vivace sei l’amica che mi piace”. Ma avevo sempre una vocina interiore, un allarme che era lì pronto a scattare appena intonavo la hit dell’estate. E giù ad ascoltare 3 De André e 1 Battiato.


Dopo il diploma con tesina a tema “Il valore della pace”, banalità che ho compensato con Italo Calvino come argomento di italiano, la mia vita è proseguita con un trasferimento a San Lorenzo a Roma, dove l’aria mi ha aiutato a rilassarmi un po’. Continuavo ad ascoltare i Baustelle, Guccini, Ludovico Einaudi, ma anche Brusco, le Radici nel cemento e i Sud Sound System, snobbati in terra natia.


Ho studiato economia, daje a ride come si direbbe a Roma e, dopo la laurea, ho iniziato a lavorare nel marketing. Dopo un battesimo professionale in agenzia pubblicitaria, ho avuto l’opportunità di fare una bellissima esperienza di volontariato europeo in Croazia, per un’ONG che si occupa di attività nella natura.


Durante quell’esperienza qualcosa è cambiato. Sono diventata meno rigida con me stessa, iniziando a dire e ad accettare frasi di un ottimismo strafottente e incontenibile come “Sun is shining and I’m so lucky, life is beautiful!”. Molto probabilmente perché in inglese il mio vocabolario è meno ampio che in italiano, ma anche perché fuori dalla mia comfort zone ho capito che non è giusto essere sempre intransigenti con sè stessi e ho iniziato a pensare a cosa mi fa stare veramente bene. Tutti possiamo meritarci una frase - anche se banale - sul volerci più bene, anche io. E vai con la ricerca “inspirational quotes” su google!


(testimonianze di quanto fossi fortunata. Foto del programma Dive into yourself, dove il sole splendeva sempre, ero felice anche senza bagno, telefono e portafoglio e usavo una corda come cintura).


Il mio percorso yoga è iniziato nel 2012 e, in tutta onestà, non è stato amore a prima vista. Sono una persona molto ironica e abbastanza chiusa di spalle. Le due cose non sono collegate tra loro (o forse sì?).

Ho avuto alcune difficoltà all’inizio a sentire, durante le lezioni, frasi come “immagina una sfera che si muove al ritmo del tuo respiro”, a immaginare fiori che spuntavano dalla mia testa o dal mio petto, a cantare Ohm. In realtà avevo difficoltà a fermarmi e ad ascoltarmi di più, a lasciarmi andare e a pensare che ero abbastanza.


Ed è qui che entrano in gioco la forza e la bellezza dello yoga - e delle insegnanti che ho incontrato: il riuscire a riportare tutto verso l’ascolto, la semplicità, la leggerezza. La leggerezza non è banalità anzi, per citare Italo Calvino (cavallo di battaglio usato anche all’esame finale del teacher training): “leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall'alto, non avere macigni sul cuore”.


Ho deciso di seguire un teacher training in un anno un po’ particolare, in cui ho avuto un piccolo intervento per un’ernia inguinale che mi ha tenuta ferma per un paio di mesi.

In quei mesi, lo yoga è stata la cosa che mi è mancata di più. Più del lattosio.

E se lo yoga è “moksha”, liberazione, perché non liberarmi dai fantasmi delle mie insicurezze e buttarmi a capofitto in un percorso nuovo, incerto, sfidante?


Dopo varie ricerche ho trovato un teacher training con due insegnanti croate. Coincidenze? Non so, ma per me è stato un segno importante. A ottobre 2019 ho iniziato il mio percorso a Milano, con Spanda Institute. Mesi di formazione, spalle che venivano forzate ad aprirsi, muscoli che si stancavano, nuove compagne di viaggio e tanta ricchezza interiore.

A luglio 2020, dopo una prova finale online a tema leggerezza, sono diventata insegnante di yoga vinyasa.


Ancora oggi sono sempre un po’ in bilico tra la mia volontà di trasmettere messaggi positivi e la paura di risuonare banale alle orecchie delle persone che praticano con me. Per risolvere il dilemma cerco sempre di insegnare solo quello in cui credo veramente, di non forzarmi a dire frasi che pronunciate mi sembrano vuote perché sono la copia di mille riassunti, di studiare e conoscere, di condividere dubbi e tematiche comuni, di provare a portare un pizzico di ironia nelle pratiche.

Ed è così che la posizione della barca può essere accompagnata da “finchè la barca va”, “con le mani” può diventare “con le mani con le mani ciao ciao”. Menomale non esiste una polizia dello yoga, altrimenti sarei già stata segnalata per cazzeggio.


E una polizia degli outfit di yoga, altrimenti anche lì arrestata per direttissima, senza i miei completini abbinati.



Da quando mi sono seduta per la prima volta a gambe incrociate su un tappetino e ho chiuso gli occhi sono passati 10 anni. In questi anni ho cercato di guardare le cose da prospettive diverse, tenere a bada la mia ironia, ma sicuramente ho evitato un bel po’ di macigni sul cuore e ho planato leggera, con giusto qualche schianto sul tappetino o sui mobili. Anche solo per un momento, quando pratico lo yoga, sono libera.


In fondo, cosa importa se ogni tanto dico ad altri o a me stessa qualcosa di un po’ banale, se quelle parole ci possono far stare bene?


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